Da analisi del sangue sarà possibile intercettare i processi che contribuiscono alla neurodegenerazione nella Paralisi Sopranucleare Progressiva. Un nuovo studio dell’università di Roma Tor Vergata sulla PSP dimostra il ruolo dell’infiammazione del sistema immunitario e la presenza della proteina tau, fondamentale nella genesi della malattia, nelle cellule del sangue offrendo possibilità per monitoraggi non invasivi.
Una malattia rara che coinvolge diverse migliaia di pazienti in Italia (si parla di circa 15000 l’anno). Interessa la popolazione adulta e anziana, con decorso rapido e aggressivo: la Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP) è una malattia neurodegenerativa che può ricordare la Malattia di Parkinson, ma in forma più grave.È caratterizzata dall’accumulo di una particolare proteina – la proteina tau – nel cervello. La PSP si manifesta nei pazienti in diversi modi: disturbi del movimento e della marcia, cognitivi e del linguaggio, della deglutizione e della motilità oculare, con quadri di elevata disabilità e alto carico assistenziale.
Negli ultimi anni la ricerca medica ha dimostrato come il sistema immunitario sia coinvolto nei processi che portano allo sviluppo di malattie neurodegenerative. Ma per la PSP tali evidenze sembrerebbero essere piuttosto scarse. L’ultimo studio pubblicato nei giorni scorsi dalla rivista scientifica Movement Disorders, intitolato “Immunometabolic Signature and Tauopathy Markers in Blood Cells of Progressive Supranuclear Palsy” si è occupato di offrire una caratterizzazione biologica delle cellule del sistema immunitario, i globuli bianchi (o leucociti) del sangue, di persone con PSP per comprenderne meglio il ruolo.
“Le difficoltà diagnostiche e l’assenza di trattamenti efficaci, anche solo sintomatici, rendono definitivamente la PSP una delle malattie neurodegenerative più gravi e complesse – dichiara Tommaso Schirinzi, neurologo del dipartimento di Medicina dei Sistemi dell’università di Roma Tor Vergata - La sfida alla PSP dipende inevitabilmente da una maggiore comprensione dei meccanismi della malattia, che ad oggi rimangono largamente oscuri, e dalla individuazione di biomarcatori, ovvero indici, che possano aiutare nella diagnosi e nella stratificazione dei pazienti”. Sono stati analizzati i campioni di sangue di una coorte di oltre settanta persone con PSP, accuratamente selezionate e valutate, e comparati con soggetti sani: si è osservato che nei pazienti malati vi sono segni di infiammazione con una prevalenza di neutrofili circolanti. “Una più dettagliata analisi di laboratorio su un gruppo più ristretto di partecipanti ha poi mostrato – aggiunge Schirinzi - che i leucociti di persone con PSP presentano un rimodellamento funzionale, con aumentata attività metabolica e attivazione di specifiche vie molecolari (NRF2/HO-1), e l’accumulo di forme patologiche di proteina tau”.
Lo studio - condotto dal gruppo di ricerca sui Disordini del Movimento dell’Unità di Neurologia dell’Ateneo diretto dai professori Nicola Biagio Mercuri e Alessandro Stefani in collaborazione con il laboratorio dell’IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma diretto da Alberto Ferri - e supportato dai finanziamenti del PNRR, ha portato a risultati che confermano la rilevanza del sistema immunitario nello sviluppo della PSP, e al tempo stesso indicano la possibilità di tracciare nel sangue i marcatori neuropatologici della malattia (la proteina tau). Da qui emergono quindi significative possibilità per il futuro della PSP. Infatti i leucociti potrebbero essere utilizzati in studi prossimi come modello per approfondire i meccanismi della malattia, come fonte di biomarcatori, e come bersaglio per nuove terapie.
Secondo gli scienziati di Tor Vergata - con Tommaso Schirinzi, anche Daniela Maftei, Jacopo Bissacco e Federica Veltri (tutti ritratti nell'immagine) - la ricerca nel campo della PSP è gravata da una serie di limiti. Ad esempio, la relativa rarità e la severità della condizione compromettono la realizzazione di studi clinici solidi; l’assenza di modelli sperimentali preclinici impedisce di approfondirne le basi biologiche. “Il nostro studio compie un passo in avanti – sottolinea Schirinzi - poiché offre un modello biologico derivato in modo non invasivo dai pazienti stessi, ovvero le cellule del sangue, su cui lavorare per lo sviluppo di biomarcatori e terapie. Inoltre, finalmente, approccia una malattia gravissima e orfana, nei confronti della quale siamo realmente disarmati, generando quindi delle speranze per il futuro”.