Pasquale Quaranta, giornalista e attivista, laurea magistrale e dottorato di ricerca nel nostro Ateneo, propone un uso più attento e corretto della lingua.
L’inclusione è uno dei cardini su cui si fonda l’Università di Roma Tor Vergata e passa in primis dal linguaggio, concetto che viene portato avanti in più modalità e con molte iniziative, fuori e dentro l’Ateneo: a febbraio è stato presentato “Glossario Fragile”, progetto corale tra più istituzioni a cui partecipa “Tor Vergata” e che cammina parallelamente con le linee guida tracciate dal nostro Ateneo con l’iniziativa “Una scrittura correttamente Vergata”; l’acceso impegno del CUG e del centro di studi GeS, che con la prof. Francesca Dragotto ha partecipato lo scorso 20 giugno al convegno “Donna: animale, femmina dell’uomo. La definizione del sostantivo nei dizionari. La necessità del cambiamento” organizzato dall’associazione “Femminile Maschile Neutro”; i seminari organizzati nel corso dell’anno accademico volti a promuovere un reale cambio di paradigma; la partecipazione dell’università al Pride del 10 giugno scorso.
Partendo dal presupposto che la lingua è potere e che attraverso il modo in cui ci si esprime si percepisce il mondo, va da sé che la questione è di fondamentale importanza ed è urgente un cambiamento.
Ne è profondamente convinto Pasquale Quaranta, dottore di ricerca in Studi comparati: lingue, letteratura, formazione con una tesi dal titolo “Detto, interdetto e maledetto. Per un primo vocabolario dell’omosessualità” a “Tor Vergata” dove aveva già conseguito la laurea magistrale in Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo con una tesi sulla storia dei gruppi gay cristiani in Italia, relatore il prof. Raul Mordenti. Giornalista per le testate del gruppo GEDI e attivista per i diritti civili, ha lavorato una decina di anni a Repubblica prima di approdare alla redazione digitale de La Stampa, dove oggi ricopre anche il ruolo di Diversity Editor e lo spiega in quest’intervista che ha rilasciato all’ufficio stampa di Ateneo.
D.: Qual è il ruolo principale del Diversity Editor?
R: Quello di sensibilizzare colleghe e colleghi in redazione sull’uso consapevole di un linguaggio inclusivo, con l’obiettivo di informare senza discriminare. Un giornalista per la diversità e l’inclusione cerca di identificare e correggere eventuali pregiudizi o stereotipi veicolati anche inconsapevolmente legati a etnia, genere, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità, neurodivergenze e altre dimensioni della diversità che ancora oggi, purtroppo, sono oggetto di discriminazioni. Lo fa attraverso corsi di formazione, linee guida per la scrittura e l’approfondimento di questi temi, divulgazione di ricerche e analisi, ma soprattutto attraverso il coinvolgimento delle comunità per comprendere meglio le esigenze e le opinioni.
D.: Perché c’è necessità di questa figura?
R: Spesso, coloro che lavorano nell'ambito giornalistico tendono a scrivere considerando principalmente un lettore stereotipato: eterosessuale, cisgender, bianco e di condizione economica agiata. Tuttavia, la società è estremamente diversificata e non può essere ridotta a un'unica rappresentazione.
D.: Qual è la linea di demarcazione tra un linguaggio privo di stereotipi e pregiudizi e il “politicamente corretto”?
R: Secondo la mia esperienza, questo confine può essere sfumato e soggettivo, poiché dipende dalle interpretazioni e dalle sensibilità individuali. Quello che possiamo dire è che un linguaggio privo di stereotipi cerca di evitare generalizzazioni che possono perpetuare discriminazioni. Ad esempio, evitare affermazioni che attribuiscono caratteristiche positive o negative a un’intera categoria di persone sulla base dell’etnia, del genere, della religione, ecc. Un linguaggio privo di stereotipi rispetta come le persone si autoidentificano. Ad esempio, per le persone transgender, utilizza i pronomi corretti, i nomi e il genere di elezione. Il concetto di “politicamente corretto”, che spesso viene sminuito o deriso perché considerato ipersensibile o limitante, ha invece un fine nobile: promuovere il rispetto e l’inclusione di tutte le persone. Il linguaggio è in continua evoluzione e le sfumature del discorso possono variare a seconda del contesto e delle esperienze individuali. Non esistono parole sbagliate ma un uso sbagliato delle parole.
D.: Parla di una “Carta deontologica arcobaleno nel Testo unico dei doveri del giornalista”, e di corsi di formazione: di che progetti si tratta, già sono attivi?
R: Siamo in una fase di alfabetizzazione di colleghe e colleghi su tematiche di diversità, equità, uguaglianza, inclusione. Grazie alla collaborazione con la Stampa Subalpina, il sindacato unitario dei giornalisti del Piemonte, organizzeremo un corso in autunno all’interno della formazione obbligatoria continua dell’Ordine dei giornalisti. Si terrà simbolicamente nella sede del quotidiano “La Stampa” a Torino. Coinvolgeremo rappresentanti delle comunità discriminate, esperte ed esperti per capire gli errori più comuni e come evitarli. Ne faremo anche altri. L’obiettivo è fare tesoro delle testimonianze e degli interventi presenti in questi corsi e fare una sintesi per redigere una Carta arcobaleno intersezionale che confluisca nel “Testo unico dei doveri del giornalista”. Una Carta deontologica su questi temi è importante anche per le future generazioni di giornaliste e giornalisti, nel superiore interesse di lettrici e lettori a ricevere un informazione corretta anche su questi temi.
D.: Questo attaccamento ostinato ai modi di dire “tradizionali” è l’espressione di una volontà di mantenere uno strumento di controllo e potere?
R: Questo attaccamento può derivare da diverse ragioni e potrebbe essere uno dei fattori in alcuni contesti. Il linguaggio è un potente strumento di comunicazione e riflette la società, le sue norme, le sue dinamiche di potere. Mantenere modi di dire “tradizionali” può riflettere una visione del mondo che privilegia certi gruppi o che ignora o minimizza le esperienze e le prospettive di altri. Questo perpetua disuguaglianze e sostiene strutture di potere esistenti. Tuttavia, è importante considerare anche altri fattori come l’abitudine, la mancanza di consapevolezza o la resistenza al cambiamento. L'importante, a mio avviso, è promuovere il dialogo e l’educazione per sensibilizzare le persone sui benefici di un linguaggio inclusivo e per favorire una maggiore consapevolezza delle dinamiche di potere nel linguaggio.
D.: Cosa ricorda da studente della tua personale esperienza a Tor Vergata?
R: A Tor Vergata ho studiato sia per la laurea magistrale in Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo, sia per il dottorato di ricerca in Studi comparati. Conservo preziosi ricordi di quegli anni, come il caloroso benvenuto di Francesca Vannucchi nel suo studio, dove abbiamo pianificato insieme il mio percorso. Ero entusiasta di partecipare ai primi corsi di studi gay, insegnati dal professor Francesco Gnerre. Il professor Raul Mordenti ha dimostrato una grande apertura mentale nell'includere tematiche affini nel suo corso di Teoria della letteratura. Un momento indimenticabile è stato l'ospitare Ciro Cascina, uno degli ultimi femminielli napoletani, che ha tenuto una lezione coinvolgente con recitazione e danza. C'era un'atmosfera magica e ci sentivamo pionieri, complici, alleati. L'anno scorso, ho avuto l’onore di essere testimonial dei 40 anni di storia dell'ateneo. Il futuro ora, come dicono quelli bravi, è tutto da scrivere. Perché non immaginare a Tor Vergata una Summer School Queer e Intersezionale o un Master dedicato a questi temi? Sarebbe fantastico.
Ripensare la lingua per ripensare la società, il mondo, che non è solo bianco, caucasico, etero e normodotato, ma è ricco di (meravigliose) differenze e sfaccettature: uno degli obiettivi di “Tor Vergata” che viene portato avanti con fermezza dal suo corpo docente e da studentesse e studenti, durante la propria carriera accademica e anche dopo, con un buon bagaglio sulle spalle e una ricca cassetta degli attrezzi.
http://web.uniroma2.it/it/contenuto/il-glossario-fragile-imparare-a-usare-le-parole-giuste
http://web.uniroma2.it/it/contenuto/microaggressioni-grandi-danni-da-piccole-forme-di-oppressione
https://www.capital.it/programmi/i-miracolati/puntate/le-mattine-pt-1-i-miracolati-del-22-06-2023/ minuto 11:18
https://www.capital.it/programmi/generazione-capital/puntate/generazione-capital-del-20-06-2023/ minuto 12:15
Photo: Courtesy of DIRE